BOZZATO: TESTO TEATRALE - personalizzato 2020

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BOZZATO: TESTO TEATRALE

LUIGI BOZZATO – TESTO PER RAPPRESENTAZIONE TEATRALE
Testo e citazioni dal libro “Luigi Bozzato Stück 70.367” di Franco Beato.




Narratore
Anno primo dell’era fascista.
Il 9 maggio 1923, Luigi Bozzato nasce a Pontelongo, in provincia di Padova, un borgo agricolo dove si campa dei prodotti della terra, confidando nelle benefiche acque del Bacchiglione che irrigano i campi, ma anche nella protezione di Sant’Antonio.
Luigi trascorre tutta la sua infanzia fino all’età matura, immerso quotidianamente nel clima fascista, nell’esaltazione del condottiero deciso e sempre vittorioso, capace di infiammare gli animi e di far leva sull’amore incondizionato della patria, destinata a proseguire nel cammino segnato dai fasti dell’antico impero romano.
Quando può, frequenta le scuole elementari, anch’esse asservite al regime, dove ha modo di acquisire i primi rudimenti della cultura generale, che tali rimarranno, perché i lavori nei campi lo reclamano fin da piccolo. Resterà impresso nella sua mente il famoso sabato fascista, dedicato alle esercitazioni ginniche e paramilitari, con tanto di divisione dei ruoli e delle età dei futuri combattenti.
Gli anni dell’adolescenza passati nella campagna di Pontelongo irrobustiscono non solo le sue braccia e il fisico, ma consolidano in lui la consapevolezza che la sua dedizione agli insegnamenti del Duce lo renderanno un giorno capace di contribuire alla grandezza della Patria, anche a costo della vita: “Vincere o morire!”
Il 21 settembre del 1940, a Padova, lui non è soltanto uno dei 300.000 presenti in Prato della Valle, ma fa parte nientemeno del picchetto d’onore schierato per il Duce in visita alla città. Le parole di Mussolini infiammano fin da subito gli animi e quando la sua travolgente oratoria prefigura una guerra vincente e gloriosa, anche a costo della vita, al suo grido “LA VOLETE VOI?”, fa eco il potentissimo e sciagurato ”Sì” della turba sterminata che fa quasi tremare l’attonita basilica di Santa Giustina!!!
Ecco: “Dio in cielo e il Duce in terra!”
E quel Duce che regola la vita di tutti, ora manda a morire in guerra i suoi figli migliori!
A poco più dei 18 anni arriva anche per lui la chiamata alle armi con la cartolina del Distretto Militare per essere arruolato come autiere al 4^ Reggimento di Artiglieria Alpina e per essere inviato in Jugoslavia a combattere contro la resistenza dei partigiani di Tito.
I suoi trasporti con il camion di servizio sono sempre ad altissimo rischio, sia per gli imprevedibili attacchi degli slavi, sia per i pericoli derivanti dalle mine presenti nei percorsi accidentati delle zone montuose interne. Bisogna avere gli occhi bene aperti e pensare sempre a come reagire in caso di aggressione. Ecco allora che alcune bombe a mano e il moschetto sempre pronto, sono i compagni fedeli dei suoi quotidiani spostamenti.

Luigi
“Una notte dei primi mesi del ‘43, faccio parte di una pattuglia composta da circa 25 soldati con il compito di controllare un territorio infestato da numerosi gruppi di partigiani, sempre pronti ad attaccare di sorpresa e a rifugiarsi poi tra i boschi delle vicine montagne. Camminiamo nell’oscurità per un paio di chilometri fino a che imbocchiamo un sentiero che quasi ci guida con i suoi bordi di neve bianca, alta una ventina di centimetri.
Mano a mano che avanziamo, comincio a non sentirmi tanto sicuro, come se il mio sesto senso mi suggerisse di stare con la massima all’erta. Improvvisamente il leggero rumore dei nostri cauti passi è lacerato da una serie di raffiche d’arma da fuoco: avverto, molto vicino a me, il sibilo delle pallottole che perforano l’aria con il loro messaggio di morte. Due dei compagni che stanno davanti a me cadono a terra, privi di vita ed altri si lamentano per le ferite.
Io mi riparo come posso dietro un grosso albero e scarico un intero caricatore nella direzione da cui provengono i colpi; poi mi chino su un ginocchio per estrarre nervosamente dallo zaino una bomba a mano. E’ un momento, solo un momento di disattenzione...
A tradimento, la lama di un coltello entra nel mio fianco sinistro e ne esce velocemente!
La morte ora bussa anche alla mia porta.
Con tutta la forza che mi rimane afferro istintivamente il moschetto e, accasciandomi al suolo, lo punto verso l’ombra nera che mi ha colpito alle spalle e che ora già si avventa nuovamente su di me per darmi il colpo di grazia. In quel maledetto buio scorgo il bagliore della lama del coltello rallentare la sua corsa e fermarsi miracolosamente a poca distanza dal mio torace. Intanto il moschetto, appoggiato col calcio al terreno, diventa pesante, così pesante che non riesco più a muoverlo: regge infatti il corpo del partigiano jugoslavo, trafitto dalla mia baionetta: pochi istanti dopo cade al mio fianco.
E’ un ragazzo come me, che sacrifica la sua giovane vita per la libertà della sua patria; ma non ho neppure il tempo di riflettere, perché un buio più nero ancora della notte si impossessa anche di me, disteso ai piedi del vecchio albero, tacito testimone di questa tragica notte e della follia della guerra.
Passano giorni prima che io riprenda conoscenza in una sala di ospedale: sento attorno a me un brusio, delle voci, o meglio dei lamenti, alcuni fievoli, altri disperati. La vista della grande camerata dove siamo stipati non è certo di conforto, piena com’è di poveri ragazzi feriti o moribondi, ognuno affrontando il proprio dolore e combattendo una battaglia diversa.
Ecco, questa è la faccia più vera e crudele della guerra alla quale, in coro sulle piazze ripiene di moltitudini esaltate, abbiamo detto malauguratamente di sì.”

Narratore
Passano ancora sei mesi di guerra, durante i quali Luigi è ferito in altri scontri a fuoco durante i suoi viaggi tra le montagne insidiose. Intanto le notizie provenienti dagli altri fronti del conflitto non sono rassicuranti per noi Italiani, che non solo abbiamo fallito miseramente con l’ARMIR nella sterminata terra di Russia, ma abbiamo anche subito lo sbarco degli Americani in Sicilia.
Arriva così il 25 luglio del 1943 che segna la fine dell’era fascista e la caduta di Mussolini. Noi, al fronte, che non abbiamo mai creduto in questa guerra fallimentare e che abbiamo subìto sulla nostra pelle non solo le ferite fisiche, ma anche tutte le altre privazioni e sofferenze nel quotidiano sforzo di contenere gli attacchi dei nemici, non vediamo l’ora di abbandonare questi luoghi e di tornare alle nostre famiglie.
Nel frattempo l’incertezza regna sovrana: siamo sempre alleati dei tedeschi, che mal ci sopportano, prefigurando una rapida capitolazione dell’Italia sotto l’avanzata degli Anglo-Americani da sud. Dal comando centrale italiano non giungono direttive sul da farsi e si lascia quasi un milione di soldati nella più totale incertezza, destinati a diventare facile preda degli stessi tedeschi.
Sul finire dell’estate, in quell’otto settembre, viene reso noto l’armistizio con gli Anglo-Americani, già firmato a Cassibile cinque giorni prima, provocando lo sconcerto tra i nostri comandanti che nulla sapevano. Ora i tedeschi, prima alleati, diventano all’improvviso nostri nemici e hanno gioco facile nel farci prigionieri in massa e spedirci con i carri merci in terra di Germania. Più di 800.000 soldati sono stati catturati!
Luigi scappa dalla caserma di Spalato con alcuni fidati compagni e tenta l’impossibile per fare ritorno a casa: attraversa il ponte sull’Eneo a Susak che era in procinto di saltare in aria e si dirige poi verso Pola per tentare un improbabile imbarco verso Ancona. L’Istria è teatro di un esodo biblico, piena di soldati che con ogni mezzo cercano di raggiungere inutilmente l’Italia.
Dopo quasi un mese di collaborazione con i partigiani titini, ora non più nemici, si avventura con grandi difficoltà verso Trieste, riuscendo rocambolescamente ad attraversare il confine e a giungere alla sua amata casa di Pontelongo!
Ma le evoluzioni politiche italiane, ovvero la liberazione di Mussolini e l’istituzione della Repubblica Sociale Italiana di Salò il 23 settembre, gli negano la possibilità di poter vivere in pace con la sua famiglia. Diventa così partigiano in Friuli, compiendo ogni sorta di sabotaggi contro i tedeschi invasori, finché un bel giorno viene catturato assieme al suo gruppo di resistenti e portato nelle carceri di Udine.
E’ il 13 giugno del 1944, quando una tradotta strapiena di disperati lo porta in terra di Germania e più precisamente a Dachau, nei pressi di Monaco, dove sorge il famigerato campo di concentramento: è un lager KZ, ovvero un luogo dove si va per affrontare lavori mortali, umiliazioni e percosse continue, alimentati solo da un’immonda sbobba e qualche pezzo di pane, che mediamente permettono di sopravvivere dai tre ai quattro mesi.

Luigi
“Agli inizi non capivo perché i detenuti più anziani mangiassero così avidamente l’erba che si trovava ai bordi delle strade. Per di più correvano dei serissimi rischi se venivano sorpresi dalle SS, che non esitavano a colpirli con il calcio del fucile o con le fruste che tengono sempre pronte all’uso.
Ora anch’io comincio a provare un forte interesse per quell’erba e, quando il momento è propizio, compio le mie prime incursioni.
L’erba selvatica sporca e polverosa, è un vero ristoro per la mia pancia, perennemente vuota, che si riempie finalmente di qualcosa.
Attento Luigi! Quel ben di Dio che hai appena nascosto nella giacca zebrata non deve assolutamente sporgere dalla tasca; non ne deve sbucare incautamente neanche un filo; né le tue tasche devono apparire troppo gonfie. Eh sì, diciamo che ci vuole davvero arte anche in questo, arte che ti viene insegnata poco a poco sia dalla vita del lager sia dall’altra grande maestra: la fame, quella vera, la Grande Fame, quella che ti fa compiere le azioni più assurde, che ti fa correre i rischi più gravi.”
“Al mattino faccio appello alle scarse energie che mi rimangono per alzarmi e per avviarmi alla bolgia dei bagni, dove una moltitudine indescrivibile di scheletri ambulanti si accalca, si spinge e grida per conquistare un posto per fare i propri bisogni. E devi farli in fretta, a comando, perché il tempo è poco e altri clienti reclamano il posto.
Ormai considero disagio da poco tirarmi su gli indecorosi pantaloni senza potermi pulire almeno un po'; anzi, a pensarci bene, col passare del tempo non faccio più caso nemmeno al fetore che emano e che si confonde con quello generale di questo branco di larve, sempre indaffarate, amorfe, intente a sopravvivere ad ogni costo.”
Narratore
In breve tempo Luigi giunge a pesare una quarantina di chili e i lavori sono sempre pesantissimi.

Luigi
“Ecco, ora il branco è al lavoro: ci sono da togliere i binari contorti, le traversine distrutte, riportare con le carriole il pietrisco per formare un piano regolare. Poi ancora, alla distanza stabilita, dobbiamo posare le traversine e allineare con precisione le rotaie.
Noi del branco sappiamo perfettamente tutto questo e vorremmo eseguire con scrupolo gli ordini che ci vengono gridati addosso; ma come possiamo farlo se ogni traversina per noi pesa come cinque o dieci traversine? Come possiamo sollevare in pochi uomini una rotaia di una decina di metri, che ha il peso di un’intera montagna? Guardo quella massa di ferro che preme con forza il terreno e mi dico che non riusciremo mai e poi mai a sollevarla e a posarla al suo posto. Poi, incredulo, assisto al miracolo!
Si avvicina a noi un kapò con il gummi in aria e comincia a colpire come un forsennato tutti quelli che gli sono a tiro, non importa in quale parte del corpo. Scopro così che una gran bastonata sulla mia povera schiena ricurva risveglia energie che non pensavo più di avere. E’ un dare fondo ad una riserva di forza che stupisce perfino me.
Con il nostro tremendo carico, con la carne che brucia, tra un’oscillazione e l’altra e sprofondando pericolosamente sulla ghiaia con i nostri miseri e malfermi zoccoli di legno, noi, simili a formiche lavoratrici posiamo finalmente quella pesantissima massa di ferro al suo posto.
Con la coda dell’occhio mi specchio sul volto di un compagno di sventura: sudore nauseante che trasuda a rivoli dalla misera pelle che ricopre ormai solo le ossa del cranio; occhi stralunati dalla fatica; paura di morire per sfinimento da un momento all'altro in questa maledetta strada ferrata, in terra straniera, lontano da casa.
Furtivamente passo le mani sul mio volto ad incontrare i medesimi zigomi sporgenti, le medesime guance ormai inesistenti e quel sudore acre che mi toglie un altro briciolo della già poca vita che mi rimane.
Come è crudele e cattivo il tempo!
Passa sempre più lentamente per farmi assaporare appieno ogni secondo della mia sofferenza. La durata delle giornate si dilata gradualmente con l’aumentare della mia vergognosa debolezza fisica. Ma ho ancora la voglia di reagire e mi consola di tanto in tanto un furtivo boccone di erba verde che mastico con calma, in attesa della sbobba del mezzogiorno. Sì, quella schifosa brodaglia dei primi giorni, ora sta diventando sempre più l’oggetto dei miei desideri.
E così, assorto in questi desideri indecorosi, rivedo mia madre che prepara il pastone per i polli, che li chiama a raccolta nel cortile di casa, (la mia dolcissima casa di Pontelongo), che versa a terra quel ben di Dio.
No! Non desidero sottrarre ai polli il loro cibo! Ma come vorrei poter raccogliere minuziosamente i loro avanzi, per non sprecare nemmeno uno di quei preziosissimi chicchi di granoturco che rimangono sullo sporco terreno, a volte nascosti dall’insulso raspare delle galline!”

Narratore
Passa molto lento il tempo della sofferenza inenarrabile, della quotidiana lotta per la sopravvivenza.

Luigi
“Come sono cambiato dal mio primo arrivo!
Bei tempi, quelli,
• quando con le mie forze ancora vigorose e intatte, lavoravo come dieci del Luigi di adesso;
• quando avevo ancora pensieri da uomo e, per di più, da uomo libero;
• quando riuscivo ancora a preoccuparmi del futuro;
• quando piangevo pensando a mio padre, a mia madre e ai miei fratelli lontani, che nulla sanno di me e della mia sorte;
• quando provavo una pena infinita alla vista dei moribondi che con un filo di voce imploravano aiuto e mi tendevano la mano;
• quando una rabbia feroce mi spingeva alla ribellione contro le angherie dei kapò;
• quando...


Narratore

• Ora non c'è tempo per ricordare, perché devi sopravvivere adesso, in questo preciso momento, circondato come sei da mille pericoli: un nonnulla, una banalità, una coincidenza sbagliata, il capriccio di un kapò o di un SS, possono significare il crematorio per te.
• Ora non c'è tempo per piangere, perché le lacrime te le ha consumate la nostalgia del mondo che hai lasciato là fuori e l'immane sofferenza degli uomini che abitano invece qui dentro. Per descrivere "questa" sofferenza le parole non esistono e quelle che si usano sono vergognosamente incapaci a significarla.
• Ora non c'è tempo per la ribellione, perché essa appartiene ad un passato ormai lontano e già non alberga nei tuoi pensieri e meno ancora in questo avanzo di corpo bastonato, piagato, sfinito, dal ventre incavato, dagli occhi sporgenti e spenti.
• Ora non c'è tempo per provare sentimenti, semplicemente perché qui dentro non esistono sentimenti e non sono graditi.
• Ora il tuo domani non esiste, perché non ne esiste la dimensione temporale. Qui nel lager, ragionevolmente, "domani" significa "mai"!
• Ora è giunto il momento di fare l'inventario accurato di quanto ti rimane: nel corpo, nel pensiero, nella volontà, nella determinazione di continuare a vivere. Eh sì, Luigi, invochi Dio e Sant'Antonio, ma li cerchi invano tra le baracche di Dachau, oppure nei luoghi dove il lavoro, inesorabilmente e ogni giorno di più, ti deruba di una parte della tua esistenza. Sei solo ormai. E chi mai potrebbe aiutarti qui dentro?
• Ora ...
• Ora, Luigi, piccolo cosmo precipitato qui dal cielo degli uomini liberi, amministra saggiamente la preziosa quantità di energia che ti rimane: risparmia su tutto, anche sul fiato, sui passi. E nel lavoro tieni occhi aperti e orecchie tese: se il kapò non ti osserva, rallenta il ritmo, non sprecare le energie che sono diventate così necessarie per te. Ormai conosci le regole del lager.

• Approfitta a dare la caccia e a mangiare tutto quello che si muove: siano essi pulci e pidocchi, che belli grossi come fagiolini, in sovrabbondanza popolano la tua veste zebrata e il tuo corpo martoriato; o siano essi i freschi vermi della terra, che escono con la pioggia dalle loro tane sicure. Sai che battendo il terreno con i tuoi zoccoli duri, li chiami a raccolta in superficie, così che tu possa tirare avanti ancora per un po'. “
Narratore
Un giorno, Luigi si trova al lavoro in un campo di Aviazione che era stato bombardato dagli Alleati…


Luigi
“All'improvviso la sirena di un allarme aereo ferma per un momento l'attività della moltitudine di sventurati sparpagliati sull'intero campo di aviazione: ma è solo questione di un attimo, perché ci pensano i maledetti kapò, furiosi più che mai, a farci riprendere il lavoro più velocemente di prima. Ormai le violente bastonate che mi arrivano in qualsiasi parte del corpo producono un rumore sordo, secco, come se fossi diventato una cassa di legno vuota.
Le SS si portano al sicuro fuori del campo e sparano alcune raffiche di mitra a significare che sarebbe del tutto inutile tentare la fuga. Passano i minuti, minuti preziosi di vita che ancora mi rimangono. Poi in lontananza un rombo indistinto arriva dal cielo, che si fa via via più cupo e potente, ma i fanatici kapò fanno i coraggiosi e urlano che siamo delle bestie codarde, incapaci perfino di affrontare la morte e continuano a gridare e a bastonare più forte che mai! Ma il rumore si fa più tremendo, immanente: diventa il padrone del campo e sovrasta con la sua potenza le deboli e insensate grida dei nostri aguzzini.
Sibili di morte penetrano acuti dentro all'anima e al corpo e istintivamente la disperazione spinge tutti a cercare un riparo che purtroppo non c'è. Il disordine domina sul migliaio di sventurati che fino ad un attimo prima erano così ben composti: sì, formiche noi dobbiamo apparire agli occhi dei piloti che dall'alto solcano e dominano con potenza il nostro piccolo lembo di cielo. Dov'è andata a finire la superbia dei coraggiosi? Dov'è il loro sguardo feroce, la voce furiosa? Ora il destino è uguale per tutti e su tutti comincia ad arrivare una valanga di sibilanti bombe, che vediamo avvicinarsi inesorabilmente con i nostri stessi occhi.
Poi c'è solo l'inferno!!
Ogni scoppio ti squassa il corpo, ti blocca il cuore, ti spacca i timpani, ti getta a terra e ti travolge come una foglia secca sotto il vento di una bufera. Per fortuna io non mi sono mai allontanato dalla mia gramigna e dal boschetto, per cui con le poche energie, corro verso il primo albero che trovo e mi avvinghio a lui affinché mi faccia da scudo.
Il rumore è tremendo e le fiammate gigantesche si alzano nel cielo per decine e decine di metri portando con sé tutto quello che si trova nel campo. Poveri i miei compagni di sventura: scagliati per ogni dove, in volo a confondersi con il terreno divelto, a rafforzare il rosso delle fiamme con il loro sangue!
Una granata trancia di netto anche la parte superiore del mio albero, che trema, si scuote, vibra e mi getta a terra poco lontano. Poi una pioggia di detriti mi cade addosso da ogni parte e, confusi con rami e sassi, mi si appiccicano alla veste brandelli sanguinanti di membra umane; vedo braccia, gambe, teste ancora rotolanti sul terreno... La fine del mondo!”

Mio Dio, perché rivolgi altrove il tuo sguardo? Perché permetti che migliaia e forse milioni di esseri umani, fatti a tua immagine e somiglianza, vengano trattati così bestialmente, quotidianamente bastonati, seviziati, torturati, affamati, uccisi per il capriccio di un kapò o di un SS?
Siamo una moltitudine sconfinata che soffre tutti i giorni fino all'estremo delle nostre forze e moriamo ancora in sentimenti, con gli strumenti del lavoro ancora nelle nostre mani: lumicini che, se tu facessi un po' di attenzione, vedresti spegnersi uno ad uno.
Anche tu, mio Dio, sei stato frustato, torturato e ucciso, ma in un sol giorno sei morto, mentre a noi è riservata una sorte terribile, che ci fa assaporare minuto per minuto queste sofferenze:

• la fame in grado sommo, quella che gli uomini del mondo che sta fuori di qui non conoscono e non potranno mai conoscere; è la fame che ti vuota il cervello, che ti fa impazzire, che ti spinge a fare le cose più assurde di questo mondo. Nei cuori dei più deboli fa muovere nervosamente, nel buio della notte, le loro mani unghiute a scavare nel ventre del compagno moribondo o appena morto per estrarne brandelli di organi sanguinanti e con essi placare, per un po', la fame e sperare di vivere qualche giorno in più!
• la fatica, quella che gli uomini del mondo che sta fuori di qui non conoscono, né conosceranno mai: noi infatti, con lo stomaco perennemente vuoto, con le gambe che nemmeno ci sostengono in piedi e con la testa che non ci guida più, dobbiamo lavorare dall'alba al tramonto con la stessa velocità e con la stessa produttività di una persona normale. E' un mistero come questo possa accadere, ma accade sotto le bastonate dei feroci kapò;
• il dolore per le continue percosse, per le ferite riportate sul lavoro che non puoi curare, per le malattie di ogni genere che ti provocano la febbre alta, la tremenda dissenteria, il tifo petecchiale, le torture gratuite degli aguzzini;
• il freddo di questo inverno germanico che si impadronisce di ogni parte dei nostri corpi esposti agli insulti della neve che ci ricopre come pagliacci; al vento feroce che penetra ovunque tra i miseri stracci che ci ricoprono;
• la persecuzione dei parassiti che ci derubano del poco sangue che ci rimane;
• la solitudine in cui lottiamo attimo per attimo per vivere ancora un minuto, un'ora, forse un giorno: nella nostra mente non c'è spazio per nient'altro;
• la consapevolezza di essere stati spogliati dell'essenza di uomini e di essere diventati dei veri animali;
• il sonno che non ti abbandona mai un istante e che è pericolosamente imparentato con la morte. Nel buio della notte dentro alle stube non si sa mai quello che succede e se il tuo corpo ancora non è arrivato al capolinea, ma ci è vicino, ecco che gli angeli della notte ti danno un aiuto e vagano da un castello di letti all'altro con delle grosse siringhe piene di benzina e conficcano i lunghi aghi proprio nel tuo cuore, per toglierti anzitempo il respiro, l'ultimo alito di vita;
• la disperazione estrema, che approfitta di un attimo della tua debolezza e della tua follia e ti spinge deciso a gettarti tra i reticolati elettrificati della 380 per farla finita subito, in pochi secondi: una morte dolce che ti libera dai tormenti e che ti fa volare alto nel cielo insieme all'esercito di quanti sono passati prima di te per il camino.

Narratore

Ebbene, uomo, donna o ragazzo che ascolti, forse distrattamente, queste parole che non sono in grado di significare le condizioni crudeli di noi dannati a morte, tenta con tutta la tua forza interiore di immaginare non solo la fame, la fatica, il dolore, il freddo, la solitudine, il degrado bestiale, la stanchezza e la disperazione nei loro gradi sommi, ma prova a mettere TUTTE queste sofferenze insieme nello stesso momento!!!

Nella prima decade di dicembre 1944, i rigori dell’inverno tedesco mettono a dura prova la sopravvivenza dei prigionieri, ricoperti soltanto delle sottili divise e con addosso dei malfermi zoccoli di legno. E’ così che Luigi, con la polmonite e la febbre alta, non riesce neppure a stare in piedi per cui il forno crematorio si sta inesorabilmente avvicinando! Ecco allora che si inventa uno stratagemma che solo la disperazione estrema gli può suggerire.

Luigi

“Dopo l’appello di baracca, il migliaio di dannati si dirige con un certo disordine verso il grande cortile per la conta dell'appello generale e per la formazione dei gruppi di lavoro. Nel frattempo, controllando con attenzione che non ci siano occhi di kapò puntati su di me, mi porto nella parte più vicina alla mia stube e furtivamente vi entro per andare immediatamente a stendermi prono sul mucchio dei cadaveri del mattino.
Ecco il mio nascondiglio sicuro!!
Mio Dio, come sono freddi questi compagni di sventura! Guardando le espressioni dei loro occhi spalancati che mi fissano immobili a pochi centimetri, mi rendo conto di quanto sia corto il cammino che ancora mi resta da percorrere qui a Dachau!
Il tempo passa indefinito, avvolto da una nebbia temporale che oscura in parte anche la mia mente: l'abbraccio diretto con la morte mi sussurra, con sottile lusinga, che la liberazione da tutte le mie sofferenze è proprio qui, a portata di mano!
Negli sprazzi di lucidità, come in un sogno lontano, mi giungono echi di battaglia, di cupi colpi di cannone, di bombe che scendono dal cielo a devastare la terra. Non li avevo mai uditi così distintamente durante il giorno.
Attorno a me sento che le attività del primo mattino sono terminate, ma che una strana quiete regna ovunque. Divorato dalla febbre, mi stacco dall'abbraccio dei morti e con fatica mi rimetto in piedi, preso dal desiderio di verificare con i miei stessi occhi quello che succede là fuori.
In questo silenzio surreale per un attimo il mio animo vacilla: mio Dio, non sarà per caso arrivata la tanto desiderata libertà? Che siano finalmente giunti gli Americani a spezzare le nostre catene?
Varcata la soglia del blocco, con passo incerto, mi porto verso la via principale del campo per poter almeno intravvedere la zona del piazzale, ma dopo qualche metro un sussulto mi blocca il respiro: due SS vengono di corsa verso di me e a nulla vale il mio "mutzen ab".
A calci, a frustate e con minacce di morte mi spingono come un animale verso il grande cortile. Nel mio piano perfetto non avevo previsto che all'appello generale, si sarebbero accorti della mia insignificante assenza! In fondo, che sarà mai se tra la moltitudine di deportati manco soltanto io, miserevole stück?
Gli oltre trentamila detenuti da oltre un'ora se ne stanno in piedi aspettando me…
Nella mia povera e stanca mente ora c'è solo la certezza della morte, pena inflitta per questo genere di infrazioni: vedo già il cappio penzolante delle forche che perennemente stazionano ai lati del palco da dove il comandante impartisce gli ordini.
I miei occhi fissano per l'ultima volta il mondo, anche se è questo brutto mondo fatto di schiavitù e di dolori senza fine.
Dall'alto del palco, che impressione vedere tutte quelle figure oscure, magre e mute rivolte verso di me! Oltre alla stanchezza e alla febbre, anche la paura della fine imminente mi toglie il fiato, mi sento l'anima volare via prima del tempo...
Ma qualcosa di straordinario, anzi di miracoloso accade: la voce tonante del lagerkommandant ordina per me non l'impiccagione, ma le 25 frustate di punizione! Sento che un sottile filo di speranza mi tiene ancora in vita.
Mi sollevano brutalmente la giacca e la camicia, mi abbassano i pantaloni e mi appoggiano col corpo prono sopra un attrezzo somigliante a un tavolino; poi mi legano le mani e un kapò si avvicina con una frusta speciale, fatta col nerbo di bue. Conosco benissimo cosa sta per accadere, per averlo visto decine di volte: dovrò contare io stesso in tedesco i numeri delle frustate che giungeranno come lingue di fuoco a bruciare la mia pelle.
I colpi mi fanno sussultare dalla potenza inimmaginabile con cui mi sono inferti. Ho appena la forza di contare le prime sferzate: dalla mia bocca escono strozzati i numeri... "Ein! Zwei! Drei! Vier! Fünf! Sechs! Sieben!... "
Sì, devo io stesso contare uno ad uno quei colpi tremendi, ma, giunto al numero sette, perdo vergognosamente i sensi dal dolore. Poiché non ho contato correttamente, il regolamento dice che si deve ricominciare da capo e così, Dio solo sa quante frustate mi sono arrivate sulla schiena e sul sedere!

Mi risveglio dopo non so quanto tempo: forse sono passati interi giorni. Appena tento di muovermi, un dolore insopportabile mi blocca, perché la camicia è diventata un corpo unico con il sangue uscito dalle ferite.
Dio mio, perché mi fai soffrire così tanto?”

Narratore

In quelle condizioni disastrose, qualche giorno dopo, Luigi è trasferito al campo di Flossenbürg, a nord della Germania, dove un kapò ha pietà di lui, gli cura le ferite e lo tiene a riposo un po’ di giorni. Che Dio lo benedica!
Un mese e mezzo più tardi, un altro treno merci lo porta alla volta del più tremendo dei lager KZ: il sinistro Mauthausen, in Austria dove dovrà lottare per sopravvivere alla cava di granito, alle selezioni nella scala della morte, nelle torture sul piazzale d’appello…
Mauthausen, campo uno, baracca numero 13, pericolosamente vicina al Blocco della Morte!


Luigi

“Da sette anni, ormai, le prime luci dell’alba accompagnano, silenziose, il fiume di schiavi che scende dalla scala della morte: i suoi 186 ripidissimi gradini, fatti di massi di pietra, – a volte bassi e a volte con un dislivello non sopportabile per le nostre ginocchia – già fin dal primo mattino mettono a dura prova la resistenza di migliaia di stück, di pezzi umani da distruggere. Se è così pericolosa e faticosa la discesa, come sarà mai la salita, dopo una giornata di lavoro che ti ha rubato a tradimento tutte le forze?
Intanto nella cava maledetta, queste mie povere mani nude, screpolate, sanguinanti, gonfie, offese dalle infezioni e dai quotidiani maltrattamenti del lavoro forzato, ecco che ora devono sollevare pietre ghiacciate, pesantissime e caricarle sui carrelli.
Mio Dio, come sono freddi questi massi, letteralmente incollati al terreno dal ghiaccio della notte. Eppure, con la pancia vuota da sei mesi e con un corpo di appena trentacinque chili, io sollevo queste pietre e le butto dentro al carrello!! Come faccio? Dietro di me, c’è sempre la morte che m’insegue, nelle sembianze dei sorveglianti assassini!
Verso le prime ore del pomeriggio, con le bastonate e le grida, ci ammassano ai piedi della scala, dove sta per iniziare una tragedia. Saremo in 500. Accanto ad un cumulo di pietre, ognuno deve prenderne una e, con uno sforzo indicibile, deve mettersela sulle spalle: spesso ci facciamo aiutare da un compagno ad alzarla se il sorvegliante non ci vede...
Quando il pezzo scelto è considerato troppo piccolo, allora sono botte bestiali e la pietra caricata con tanta fatica, rotola sul terreno. Il kapò te ne sceglie, lui, una bella grossa e ti obbliga a caricartela da solo questa volta. Se non ce la fai, non importa: la tua fine è arrivata! A calci, pugni e bastonate ti scaraventa a terra e poi con i tacchi delle sue scarpe ben solide, salta sul tuo torace con tutta la cattiveria di cui è capace, fracassandoti le ossa e rompendo gli organi interni della tua misera pancia.
Un compagno mi dà una mano e un peso impressionante mi incolla al terreno: credo che pesi almeno quanto me. Con le mani la tengo in equilibrio, freddissima e scivolosa. Avanzo a piccoli e incerti passi, con il capo chino e con gli occhi bagnati dalla gelida pioggia di febbraio, scrutando il terreno per non inciampare.
Così, respirando profondamente, mi dico: “Luigi, devi farcela! Tira fuori, quello che ti rimane, anche l’ultima energia nascosta. Avanti! Avanti!”.
Ora i miei piedi, dentro agli zoccoli bagnati e instabili, affrontano il primo gradino: mettere il piede su quello superiore è già un’impresa, ma richiamare anche l’altro è ancora più difficile, perché su di esso poggia tutto il peso. Allora piego leggermente la gamba che sta giù e con il piccolo slancio, conquisto il mio primo scalino... e così avanti con gli altri. I respiri sono profondissimi; il cuore è come un motore impazzito in fuori giri; la testa non crede che io stia veramente avanzando. Lo sforzo mi strappa anche l’anima e il sangue si mescola al mio sudore cadaverico.
Ogni tanto qualche sasso cade, trascinando con sé decine di birilli umani: grida; tonfi cupi delle pietre che rotolano verso il fondo; kapò infuriati!
Davanti a me la fila è lunga e ogni tanto sollevo lo sguardo verso l’alto per vedere quando i primi sono prossimi a raggiungere la sommità, dove un gruppo di SS, avvolte nei loro impermeabili neri, aspetta pazientemente che i primi sottouomini giungano ai loro piedi. Arrivano stremati, con gli occhi paonazzi per la fatica, col fiato corto e col sudore della morte.
Esiste un essere vivente su questa terra che non provi pietà di loro? Ebbene, sulla cima, i maledetti si avventano sui primi martiri che arrivano, spingendoli verso il basso con violenza, a suon di calci, di bastonate e con tremende frustate sul viso.
Inizia così il loro divertimento giornaliero!
Appena mi accorgo che la carneficina ha inizio e che un terremoto di massi comincia a rotolare giù dalla scala maledetta, lascio cadere la mia pietra e mi sposto sulla destra, fuori dalla traiettoria delle pietre impazzite. Il rumore cupo dei primi massi che colpiscono ripetutamente gli scalini è impressionante e sembra non finire mai: secondo dopo secondo, si moltiplica per le centinaia e centinaia di altre pietre che precipitano, rimbalzano, frantumano gli uomini come fuscelli... Alcuni massi prendono velocità e saltano alti, roteando minacciosi sopra le teste del branco, per ricadere, come bombe, a colpire, con veemenza inaudita, gli sfortunati che stanno più in basso: è una carneficina tremenda!!!
Uomini e macigni impazziti, con l’effetto di un gigantesco domino, precipitano senza scampo sul fondo della scala, che diventa completamente rossa di sangue.
Intanto la pioggia, pietosa, continua a scorrere verso la cantèra, trasformandosi in un torrente vermiglio.
Narratore
Il giorno successivo Luigi non è più in grado nemmeno di stare in piedi e quindi, come era accaduto a Dachau, dopo l’appello di baracca si nasconde nel mucchio dei morti evitando così di andare al lavoro, dove sicuramente lo avrebbero ucciso.
Lo stratagemma gli riesce per alcuni giorni, soltanto perché in questo periodo all’interno del campo di Mauthausen ci sono decine e decine di migliaia di prigionieri provenienti dai campi dell’est, liberati dai Russi e giunti in condizioni pietose con le “marce della morte”. Nel campo ci sono più morti che vivi, viene da dire, e la confusione è talmente grande, che l’assenza di Luigi all’appello generale passa inosservata.
Ma una mattina…


Luigi
“Verso le otto o le nove, due SS entrano nella mia baracca ormai vuota e mi chiamano per numero. Mi alzo come posso e li accolgo con il mio rituale di schiavo, il “muzen ab” e con lo sguardo basso; quindi mi dicono in tedesco: “Italiano, cammina, vieni con noi!”.
Camminare è una cosa, ma tenere il passo di due uomini che mangiano a sazietà ogni giorno, è tutto un altro discorso, per cui, mio malgrado, mi attardo un po’. Mi spingono a calci verso il piazzale che attraversiamo quasi del tutto finché arriviamo alla parte sinistra del bunker, nei pressi del quale una scala scende verso i sotterranei.
Lì, mi tolgono tutti i vestiti e a furia di bastonate mi scaraventano sulla neve alta che ricopre in abbondanza il cortile.
Un gelo tagliente avvolge in pochi istanti l’intero mio corpo nudo, mi toglie il respiro, mi stordisce, mi gela fino alle ossa... Poi il buio cala su di me.
Considerato morto, mi fanno rotolare giù per la scala e da lì mi trascinano accanto ad un forno crematorio, in attesa del mio turno.
Proprio qui, infatti, forse a causa della temperatura più calda, mi riprendo, non so dopo quanto tempo.
Prima ancora di aprire gli occhi, avverto una spossatezza indescrivibile, per cui continuo a riposarmi per qualche tempo. Poi mi guardo intorno e mi sforzo di mettere a fuoco le immagini che danzano confuse davanti a me. Mi sembra di vivere dentro ad un sogno fatto di fantasmi, di forni crematori, di SS pronte ad uccidermi...
Poi, finalmente i miei occhi vedono chiaro: sono per davvero sdraiato accanto ad un forno crematorio!!
Incredulo nel vedere quello che nessun altro prigioniero vivente ha mai potuto vedere e raccontare, con calma raccolgo un carboncino, mi sollevo lentamente e scrivo sulla parte frontale del forno le mie iniziali B L, Bozzato Luigi, affinché il mondo possa un giorno conoscere anche la mia testimonianza.
Ora sono in piedi, proprio di fronte alla bocca che ha ingoiato i corpi di migliaia e migliaia di compagni, di donne e di bambini! La tocco con queste mie mani deboli e tremanti, per fugare ogni dubbio che non si tratti di un’allucinazione: la osservo per fissarla indelebilmente nella mia memoria.
Qui dentro sarei finito anch’io, ancora vivo, se non fosse per questa situazione surreale, miracolosa, che mi vede proprio in questo inferno vero, senza la presenza dei feroci kapò, delle SS, degli addetti al crematorio!!
Grazie a te, Sant’Antonio! Grazie, Dio mio, per aver avuto pietà di me nel momento del maggior pericolo! E dire che tante volte, io stesso, ti ho pregato di mandarmi la grande morte e di farmi passare per il camino!
Non mi capacito di trovarmi in questo luogo temuto da tutti e di essere ancora vivo! Un turbinio di domande mi assale, ma adesso non posso e non devo dare risposte. Ora devo ritornare in me, mettere in moto la mia testa disobbediente e pensare a come uscire da qui. Infatti, mi accorgo di essere ancora totalmente nudo, per cui, come prima cosa, devo trovare di che coprirmi. Come potrei ritornare in queste condizioni nel cortile dell’appello senza correre il rischio di essere assimilato alla moltitudine di prigionieri provenienti dall’est e pronti per il crematorio?
Allora mi muovo, con passo incerto e smarrito, in questi bui e deserti sotterranei, finché trovo una stanza dove per terra giacciono diversi cadaveri, ancora con i loro vestiti. Mi chino e, con le poche energie che mi rimangono, ho l'accortezza di cercarne uno col triangolo rosso IT. Con fatica gli tolgo la veste logora e sporca e la indosso lentamente. Vorrei essere più veloce per non rischiare di rompere questo incantesimo fortunato con l’arrivo di qualche aguzzino, ma le mie forze sono davvero ridotte al lumicino.
Ora sono il sottouomo n. 110.350.
Rivestito della nuova identità, diventato un altro stück, ancora inebetito e confuso dall’inferno che questi miei occhi vedono, mi dirigo con il mio passo lento e traballante verso la scala che porta al cortile. I pochi gradini, duri da salire come una montagna, sono per me la vita o la morte! Ancora uno e mi ritrovo di nuovo nel mondo dei vivi, anche se il cuore non batte all’impazzata e la mia mente non è ebbra di gioia come dovrebbe essere.
Questi miei occhi rivedono finalmente la luce, la luce opaca di questo giorno speciale che Dio mi ha regalato!
Sì, Mauthausen è ancora vivo e mi sta dando, una volta di più, l’opportunità di appezzare anche il gusto amaro di questa vita di schiavo.
La pioggia battente, mista a neve, mi sorprende mentre attraverso il piazzale e cammino verso la mia tana, alla ricerca della coperta nascosta, che mi proteggerà, per quello che può... Ho fame. Ho freddo. Sono stremato e ferito. Ma, anche così, ringrazio il cielo per essere ancora vivo!

Narratore
Luigi alla sera non può certo tornare alla sua baracca n. 13 perché il kapò lo riconoscerebbe di sicuro! Allora ne sceglie un’altra a caso, dove trova un capo blocco che lo accoglie, nonostante si renda conto che lui è semplicemente un intruso.
Correndo anche lui dei grandi rischi, lo trattiene nel suo blocco per diversi giorni, finché non muore un prigioniero italiano. Allora Luigi prende il numero di quello e la sua veste 110.350 viene distrutta, perché appartenente ad un prigioniero morto già registrato.
Un’altra fortuna, per lui, è quella di non essere più assegnato al lavoro mortale della cava, ma ad una fornace nel sottocampo di Gusen 3, dove si èssicano i mattoni d’argilla: stare al caldo in pieno inverno e addetto ad un lavoro meno massacrante gli permette di riprendere un po’ le forze.
A metà marzo del ’45 lo trasferiscono nuovamente e Luigi si ritrova al campo di Allach, sottocampo di Dachau, vicino a Monaco.
Alloggia alla baracca n.5, dove conosce Lorenzo Damiani, un italiano che lo aiuterà.
Ad Allach è presente la BMW, la potente industria meccanica che costruisce i motori per gli aerei da guerra tedeschi e attorno ad essa sono presenti diversi campi di concentramento che forniscono complessivamente la manodopera di 40.000 schiavi.
Dei 10.000 del suo campo, circa 3.500 sono impiegati nei durissimi lavori dell’edilizia, sotto la Dyckerhoff, che sta costruendo un immenso bunker corazzato dentro al quale mettere al sicuro le immense officine meccaniche della BMW, frequentemente bombardate dall’aviazione alleata. In questo kommando ogni giorno è la disfatta dei prigionieri, per dirla con le parole di Luigi, perché ne muoiono a centinaia.
Al mattino un serpente di ombre scure si insinua lentamente all’interno dei grandi capannoni delle officine meccaniche fino a scomparire, mentre il resto si disperde, come un immenso formicaio, nello spazio aperto dove sorgono possenti costruzioni, che dominano il surreale paesaggio.
Ci sono uomini ovunque: sulla sommità, alla base, nelle fondazioni, sulle precarie impalcature dove esili ombre si arrampicano trasportando pesantissimi tondini di ferro e ogni sorta di altro materiale: sono per lo più in piccoli gruppi che lottano per non cadere da altezze di otto o dieci metri e che tentano di stare in equilibrio magari con una carriola piena di cemento. Un piccolo cedimento, un movimento sbagliato o anche una mancata intesa con i compagni, li fanno cadere!
Su queste rudimentali impalcature si consuma ogni giorno la “disfatta dei prigionieri”.

Luigi
Con un piccone in mano dal peso spropositato rispetto alle mie forze, mi trovo dentro ad uno scavo per fondamenta con altri sventurati.
Mi sembra di essere ritornato bambino, quando imbracciando il pesantissimo piccone del babbo, tentavo goffamente di alzarlo e di smuovere la terra compatta!
E’ uno scenario imponente dentro al quale tutto si muove incessantemente, dove le grida feroci dei kapò e il rumore delle frenetiche attività dei deportati formano la sinistra colonna sonora delle nostre giornate. Fortunatamente, nei rari momenti di quiete, si percepiscono appena, ovattati per la distanza, i colpi dei cannoni e delle bombe: sono per noi la grande motivazione a resistere e a sperare ancora nella Grande Liberazione.
Una sera, in fila davanti alla mia baracca numero 5, col capo chino, gli occhi fuori dalle orbite per lo sfinimento e il fiato corto, ricevo in questa mia misera gamella un mestolo o poco più di sbobba, che religiosamente proteggo con quel poco che rimane del mio corpo.
Mentre, seduto in un angolo trangugio il prezioso contenuto, alzando gli occhi mi accorgo che un compagno vicino lancia sguardi su di me. Dopo aver lucidato accuratamente con la lingua ogni parte del contenitore rosa, proprio come fanno gli animali affamati, incrocio nuovamente quello sguardo, per cui ripercorro con la memoria la mappa dei visi dei miei amici, ma lì per lì, non trovo corrispondenze.
Quando mi si avvicina ancora di più e con un filo di voce mi chiede “Sei Luigi?”, un lampo illumina i miei ricordi. Sì, guardandolo bene, con attenzione ai particolari e soprattutto al timbro della sua voce fioca, mi sembra che sia proprio lui: Pizzol Giacomo, di Montaner! Sì è lui!! Quasi non lo riconoscevo perché le nostre fattezze sono invecchiate di almeno 40 anni: ora abbiamo la pelle raggrinzita come quella di un rospo!
Nell’abbraccio scopriamo quanto siamo diventati sottili e leggeri, quasi pronti a volare fuori dal camino del crematorio. Parliamo più con gli occhi che con le parole, perché abbiamo poca aria ancora da respirare. Rinnoviamo tacitamente in quell’abbraccio l’antico patto di dividere in parti uguali l’improbabile cibo che avessimo avuto modo di “organizzare”.
Giacomo … un raggio di luce in questo inferno!
Un giorno, dentro ad uno scavo per fondamenta, io piccola larva di uomo ormai privo di forze, sento arrivare sopra di me un soldato della Wermacht che grida a gran voce “snell snell “, incitamenti a lavorare più in fretta, più velocemente! È proprio vicino a me, tanto che mi arrischio a rivolgergli fugacemente lo sguardo, cosa che non farei certo nei confronti di una SS!
In quella frazione di secondo, contrariamente a quello che pensavo, incontro gli occhi di un Uomo … e quest’Uomo furtivamente lancia verso di me un pacchettino avvolto da carta di giornale che io raccolgo con rapidità insospettata dal fango. Prima di proseguire oltre, vedendo i miei occhi increduli, mi regala un altro sguardo, intriso di complicità e di umanità! Che Dio benedica anche te, nemico buono che hai provato pietà per me!
È da tempo immemorabile che non mangio una mela e una pagnotta di pane vero!! Grazie, Dio mio, che ti sei accorto di me in mezzo a questa turba infinita di affamati! Oggi è il mio giorno fortunato.
A piccoli morsi furtivi riscopro i sapori antichi e preziosi di quando ero un ragazzo felice che viveva nel mondo degli uomini liberi…
Attento Luigi, questi ricordi sono pericolosi: non vedi che stai perdendo la concentrazione e che sta per arrivare una SS? Che figura ci faresti se ti vedesse mangiare una mela proprio qui alla Dyckerhoff? Come ti potresti giustificare? Stai mettendo seriamente a rischio la tua povera vita …
Narratore:
Questa straordinaria fortuna dura diversi giorni, fino a quando una SS scopre tutto. Allora quel soldato sparisce dal campo e il numero di Luigi finisce nel taccuino della SS per essere successivamente punito in maniera esemplare!
E infatti una sera …

Luigi
“di ritorno al campo, la SS mi cerca, mi trova, controlla il mio numero e scatena subito tutta la violenza di cui è capace per annientarmi! Con il suo frustino mi colpisce ovunque e ad ogni colpo la mia carne sanguina provocandomi dolori lancinanti. A terra, riesco a mala pena a proteggermi il viso con le mie esili mani ossute.
Per mia fortuna alcuni italiani che lavorano nelle cucine e che fanno i camerieri alle mense delle SS, si prendono il gravissimo rischio di sottrarmi alla sua furia e mi trascinano di corsa nella loro baracca. La scena inusuale lascia meravigliati gli stessi compagni presenti, che, impauriti, assistono muti all’episodio. In quel momento di silenzio si sente distinta, se pur in lontananza, la furia dei combattimenti.
Forse questo è il vero motivo per cui il mio aguzzino ha deciso di desistere.
Pieno di ferite e sanguinante, con gli occhi smarriti, guardo con riconoscenza i miei coraggiosi compagni che hanno rischiato la vita per me. Vorrei tanto morire per non soffrire più, ma … il rombo delle squadriglie aeree notturne dei bombardieri alleati mi fa balenare l’idea, se pur remota, di poter almeno vedere la Grande Liberazione: il sogno segreto di ogni stück, di ogni pezzo.

Narratore
Intanto nell’ultima settimana di quell’aprile del ’45, gli scontri a fuoco e i colpi di cannone si fanno davvero vicinissimi al campo di Allach, per cui aumenta la speranza dei sottouomini, ma anche la paura dei superuomini, i carcerieri, che sentono giungere il momento della resa dei conti!
Non si va più al lavoro da una decina di giorni, ciononostante nel campo …

Luigi
“Che desolazione impressionante vedere una moltitudine di moribondi che vaga ovunque in cerca di un posto in cui morire! E i cadaveri? Ora che il kommando “moor-express” ha sospeso i suoi viaggi a Dachau, dove i forni si sono spenti per mancanza di carbone, le cataste dei morti aumentano di giorno in giorno.
Se ne vedono dappertutto: nei viali, nei pressi dei lavatoi e perfino nel piazzale dell’appello! Dalle alte cataste sporgono vergognosamente braccia e gambe irrigidite … e visi contratti nelle ultime sofferenze, sovente con gli occhi spalancati non si sa su quali ultimi orrori!”

Narratore
La violenta battaglia notturna del 29 aprile tra carri armati americani e postazioni contraeree tedesche, colpisce anche il settore delle donne ebree del campo, provocando diverse vittime, ma è anche l’ultimo atto di resistenza di una Germania ormai vinta e distrutta.
Il giorno dopo, il 30 aprile, sarà un giorno molto speciale: il giorno della Grande Liberazione!

Luigi
“Il cielo azzurro e il sole splendente di questa giornata speciale finalmente entrano anche nel campo di Allach a dare calore e gioia a questa turba di Uomini ancora vivi!
Verso le undici del mattino, dalle torrette di controllo, i nostri compagni di guardia, improvvisamente urlano con tutta la loro voce: “Eccoli, eccoli! Arrivano gli Americani!!!!!!!!!!”
Il nostro incontenibile grido di gioia si leva possente e interminabile verso il cielo a ringraziare Dio e i fratelli liberatori!
Dal ponticello sulla ferrovia, le tute kaki dell’avanguardia americana, che con le loro radio trasmittenti sulle spalle avanzano carponi e con estrema prudenza, a questo grido dei 10.000 si rizzano in piedi increduli e corrono veloci verso di noi che li aspettiamo da tempo immemorabile!
Sono i soldati della 42° Divisione Arcobaleno, appartenenti alla 7° Armata Americana.
Non ci sono parole in grado di esprimere quello che sentiamo dentro di noi in questo momento. L’emozione è così forte da bloccare i cuori dei più deboli!
Si ride, si piange, abbracciamo i nostri liberatori… Ognuno vuole toccarli, come per darsi una certezza materiale e fugare il sospetto che non si tratti di un’allucinazione. Li circondiamo fino quasi a soffocarli!
Dentro ai blocchi, alla loro vista, i malati terminali tentano con tutte le loro forze di sollevarsi, per formulare anche solo una parola e per un attimo i loro occhi si illuminano. Qualcuno dalla gioia si accascia definitivamente.
Dio mio è arrivata la libertà! Le mie mani passano sopra la divisa a righe che mi ha incatenato per così tanto tempo: sopra a questo triangolo rosso IT e sopra al 70.367 che mi accompagnerà per il resto dei miei giorni.
Seduto a terra, accanto ad una catasta nauseabonda dei miei compagni sfortunati, l’anima comincia timidamente a volare oltre i reticolati, alla ricerca del mondo degli uomini liberi. Vorrei tanto piangere per l’emozione così forte, ma questo mio corpo stanco e consumato non ha più lacrime: i KZ mi hanno rubato anche quelle.
I sentimenti che provo in questo momento sono così tanti e così intensi che non si possono esprimere con le parole.
L’immagine di mio padre mi fa visita per prima; e poi la mamma; e poi i fratelli; e poi il mio adorato Pontelongo; e poi…
Non vedo l’ora di respirare l’aria del mio paese, di vedere uomini, donne e bambini dei luoghi dove sono cresciuto, di sentire le loro voci ormai dimenticate, di abbracciare con questi miei occhi quante più cose e persone possibili della mia terra! Che intrico di pensieri e di emozioni!

Narratore
Passa quasi l’intero mese di maggio prima che arrivino i mezzi della Croce Rossa per riportarlo in Italia: sono i giorni della sepoltura dei compagni morti a migliaia e della grande paura di essere contagiati dal tifo che imperversa nel campo. Sarebbe una sventura insopportabile morire proprio ora che è arrivata la tanto desiderata Libertà!

Luigi
“Quando finalmente sono seduto al mio posto e il camion parte, rivivo, come in un film, tutto l’inferno dei miei quattro KZ. Sento che sto abbandonando su questa terra, straniera e ostile, tanta parte di quel Luigi giovane e forte che ero.
Le lacrime, le mie prime lacrime di queste forti emozioni, rigano la mia pelle arida e rugosa che mi porto addosso.
Per strada, chi ne ha le forze, intona le belle e commoventi canzoni che tutti noi portiamo nel cuore. Sono i cori alpini, il nostro inno nazionale, ma quella che strappa le lacrime e va dritta al cuore è “Mamma”; sì “Mamma son tanto felice perché ritorno da te!” Chi ha poco fiato la sussurra o l’accompagna piangendo …
Con queste emozioni forti, ma dolcissime, dopo ore e ore di viaggio, l’autocolonna si ferma per una sosta di ristoro.
Appena scendiamo, scopriamo che siamo finalmente giunti in terra italiana e allora l’euforia e la gioia sono immense.
Dall’alto di queste montagne lo sguardo si spinge il più lontano possibile alla ricerca del nostro paese, della nostra città; e le braccia ancora deboli e ossute si allargano come a voler comprendere non solo il Brennero, ma l’Italia intera.
Durante il tragitto del ritorno i miei occhi vedono i meravigliosi paesaggi di questa bella primavera, ricchi di colori accesi, di prati, di boschi, di mandrie di bestiame al pascolo. I contadini indaffarati nei campi con i loro attrezzi, con i buoi e i carri, trasportano nelle stalle foraggio fresco per le mucche. Si sente l’inconfondibile odore dell’erba medica appena tagliata: quell’erba che tanto ho desiderato nei tristi giorni della Grande Fame!
Alcune ore dopo attraversiamo la Valsugana, col Brenta che ci accompagna fino a Bassano, terra di Alpini, terra di eroi della prima Guerra Mondiale!
Mio Dio! Padova si sta avvicinando: sto quasi per arrivare a casa e penso che mio padre e mia madre non sanno ancora nulla di me da tantissimo tempo! Cosa avranno pensato? Sperano ancora che io possa ritornare?? Mi aspettano? Lasciano ancora la porta di casa aperta di notte come quando tornavo tardi alla sera??
Quanti sentimenti, ora che il mio amato Pontelongo si avvicina sempre più …
Alla stazione ferroviaria di Padova mi aspetta finalmente quel benedetto treno che mi porterà al mio Pontelongo!
Scendo a Piove di Sacco perché durante la guerra il ponte ferroviario che porta al mio paese è stato bombardato e così prendo una bici a noleggio e mi avvio con fare incerto verso casa.
Nel frattempo Bettio, che mi aveva visto sul treno, era arrivato una mezz’ora prima in paese. Vicino alla farmacia incontra mia sorella Anita e le dice:

Bettio
“Piccola, vai a casa, che per strada c’è tuo fratello che arriva”.
Lei gli risponde:

Anita
“ Mio fratello Antonio, appena nato, è già a casa con mia madre”.
E lui:

Bettio
“Non hai forse un fratello lontano che manca da tanto tempo?”

Narratore
Eccitata da questa improvvisa e meravigliosa notizia che in famiglia si aspetta da sempre con grande angoscia, Anita corre a perdifiato ad avvertire il papà che sta raccogliendo il fieno sull’argine del Bacchiglione assieme a Ermenegildo.
Grida da lontano:

Anita
“Papà, papà, corri, corri! Luigi sta tornando a casa!!!!”

Narratore
È una di quelle notizie che fanno quasi scoppiare il cuore dalla contentezza!
Forche e rastrelli cadono a terra e, col cuore che batte all’impazzata, i due partono di corsa verso la strada che porta a Piove di Sacco.
Alle cinque di pomeriggio di quel benedetto 28 maggio, nei pressi della trattoria “Al Casonetto”, ecco, essi vedono finalmente arrivare da lontano una bicicletta con un ragazzo esile e magro che pedala a fatica: “È Luigi?” “Sì, è proprio lui!!!”

Si saprà mai quali sentimenti, quali emozioni avrà provato questo padre che incontra dopo quasi un anno il figlio che riteneva perduto?

Padre e figlio si uniscono in abbraccio infinito. Si mescolano lacrime di gioia e un nodo alla gola toglie il respiro.

Luigi
All’abbraccio si unisce anche mio fratello, che mi stringe forte, anche lui con le lacrime. Mi sorregge con le sue braccia forti e vigorose per proteggermi e per farmi capire che non sono più solo!
Come sono belli e sicuri ora i miei passi con loro al mio fianco!
Anita nel frattempo era corsa a casa ad avvertire anche la mamma e gli altri fratelli.
Tutta la famiglia è in subbuglio. Mia madre, col bambino appena nato, piange dalla gioia e non vede l’ora di riabbracciarmi.
In famiglia oggi è calata la benedizione di Dio!
Ora ho tutta la famiglia che non mi toglie gli occhi di dosso: i fratelli mi fanno mille domande, vogliono sapere tutto del mio passato.
Ma come posso far capire a loro quello che ho sofferto, se non esistono parole capaci di descrivere il mondo degli “Untermenschen” in cui sono precipitato per così tanto tempo?
Come potrebbero capire la Grande Fame, le 50 frustate di Dachau che mi hanno portato in fin di vita, la scala della morte, la cantèra maledetta di Mauthausen, i forni crematori visti con questi miei occhi, la Dyckeroff di Allach?
Allora mi chiudo nel silenzio perché la mia anima è ancora prigioniera dei lager KZ.
Per me parlano solo le lacrime e la tristezza infinita che alberga dentro di me.
Per quarant’anni ho tenuto nascosto il mio grande segreto, fino a quando, un giorno, ho deciso di scrivere le mie memorie.
Ma il tempo scorre inesorabile e porta via con sé, cose e persone care.
Addio mia cara Giovannina! Mi hai lasciato da solo nell’ultimo tratto del viaggio, consolato soltanto dai pochi amici fidati che quasi quotidianamente mi vengono a trovare, anche da Padova.
A tutti loro, voglio dire che nonostante gli innumerevoli anni trascorsi dal buco nero dei lager, l’instancabile ombra dei KZ continua ad inseguire con fulminea precisione le mie orme: conta i miei passi, aspetta paziente i miei sogni notturni e stende una sconfinata nuvola scura sulla mia vita.
Nelle serate trascorse in allegra compagnia con i miei meravigliosi amici, tra una risata e l’altra, io la vedo arrivare sinuosa e scaltra, questa ombra nera: si insinua abilmente tra i commensali fino a raggiungermi e a sedersi da padrona dentro alla mia anima da deportato.
La bella brigata pensa allora che le mie siano le lacrime di un antico dolore ormai dimenticato: non sanno - e non potranno mai neppure immaginare - che invece l’eterno film dei tormenti dei KZ non smette mai di proiettare le sue atrocità sullo schermo della mia mente.
Come potrei mai dimenticare l’esercito di compagni trucidati ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?
Sono fuggiti dal KZ entrando nelle bocche ardenti dei forni di Mauthausen. Ora, passando per il camino, sono finalmente liberi di volare alti nel cielo in compagnia della loro infinita tristezza e dell’incancellabile nostalgia per il mondo degli uomini liberi.

 
 
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